Nota all'Ordinanza n. 3466 dell'11 febbraio 2021 della Corte di Cassazione
Abstract
La Nota all'Ordinanza n. 3466 dell'11 febbraio 2021 della Corte di Cassazione rappresenta uno snodo centrale per la comprensione del ricorso innanzi alle corti tributarie.
Il giudizio tributario è senz’altro legato alla corretta interpretazione dell’art. 19 D.Lgs. 546/92 il quale prevede un elenco di atti relativi allo svolgimento del rapporto tributario “impugnabili autonomamente”.
In questo articolo l'autore esplora le criticita' della tesi che vuole la non impugnabilità autonoma degli atti diversi da quelli indicati dallo'art. 19, esacerbando cosi' la natura di giudizio impugnatorio dello stesso processo tributario.
1. Premessa
Uno snodo centrale per la sistemazione del giudizio tributario è senz’altro legato alla corretta interpretazione dell’art. 19 D.Lgs. 546/92 il quale prevede un elenco di atti relativi allo svolgimento del rapporto tributario “impugnabili autonomamente”.
Da tale articolo discenderebbe la non impugnabilità autonoma degli atti diversi da quelli indicati, risultando da ciò che il processo tributario, almeno nell’idea del legislatore del 1992, ha natura di giudizio impugnatorio, contro atti ben determinati, espressione di poteri pubblicistici, da instaurare entro termini perentori a pena di decadenza.
Tuttavia, anche la giurisprudenza della Corte Costituzionale, già con riferimento alla regola consimile recata dal D.P.R. 739/1981, novellando l’art. 16 del D.P.R. 636/72, aveva sostenuto la non tassatività dell’elencazione per evitare incostituzionali compressioni del diritto di difesa.
Con la sent. n. 313/85, la Consulta aveva affermato che l’elenco contenuto nell’art. 16 D.P.R. 636/72 non era di ostacolo ad una interpretazione estensiva di tale norma e che “tutti gli atti che hanno la comune finalità dell’accertamento della sussistenza e dell’entità del debito tributario” sono equivalenti “qualunque sia la denominazione da essi data dal legislatore” e che “essi, siccome suscettibili di produrre una lesione diretta ed immediata della situazione soggettiva del contribuente, sono immediatamente impugnabili dinanzi ai giudici tributari”.
La Corte costituzionale, pronunciandosi a proposito dell’impugnabilità dell’atto di diniego di condono, ha ritenuto “che la qualificazione come tassativa dell’elencazione degli atti impugnabili, contenuta nell’art. 7 del d.p.r. 739/1981 che ha sostituito il testo dell’art. 16 del d.p.r. n. 636/1972 (ma le relative conclusioni valgono anche per l’elenco di cui all’art. 19, d.lgs. 546/1992), non è di ostacolo, nella fattispecie, all’interpretazione estensiva della norma” in quanto “non sarebbe certamente giustificabile, specie sul piano costituzionale (artt. 113 e 24 della costituzione), la posticipazione nel tempo della tutela giurisdizionale”.
2. La specie in esame
La ..... s.r.l. ha impugnato la sentenza n. 201/21/2013, depositata il 4 luglio 2013 dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio, con la quale, confermando la pronuncia del giudice di primo grado, era stata dichiarata l'inammissibilita' del ricorso proposto dalla contribuente avverso la comunicazione d'irregolarita', trasmessa dall'Agenzia delle Entrate del Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, ex articolo 36 bis, comma 3.
Ha riferito che il 31 ottobre 2006 aveva eseguito il pagamento dell'Irap dovuta per l'anno d'imposta 2005, versando anche Euro 130,14 a titolo di sanzione per ravvedimento operoso, ai sensi del Decreto Legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, articolo 13, comma 1, lettera b).
Successivamente aveva tuttavia ricevuto dall'Agenzia delle Entrate la comunicazione d'irregolarita', con la quale gli era rappresentato, all'esito del controllo automatico del modello Unico/2006, che per il tardivo versamento dell'Irap era conseguita la comminazione della sanzione amministrativa di Euro 650,00, pari al 30% dell'imposta dovuta.
La contribuente aveva pertanto proposto ricorso dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Roma, che con sentenza n. 115/33/2011 aveva dichiarato il ricorso inammissibile. L'appello introdotto dalla societa' dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio era stato dichiarato parimenti inammissibile con la sentenza ora impugnata.
Il giudice regionale, al pari di quello provinciale, ha ritenuto che la comunicazione d'irregolarita', emessa ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 36 bis, non rientra tra gli atti autonomamente impugnabili indicati nel Decreto Legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, articolo 19.
La ricorrente ha censurato la decisione con un motivo, dolendosi della violazione e falsa applicazione del Decreto Legislativo n. 546 del 1996, articolo 19, in relazione all'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per aver escluso dal novero degli atti autonomamente impugnabili la comunicazione citatao Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, ex articolo 36 bis.
Ha quindi chiesto la cassazione della decisione, e, trattandosi di controversia fondata su questione di diritto, senza necessita' di accertamenti di fatto, ha eccepito l'illegittimita' costituzionale del Decreto Legge 17 giugno 2005, n. 106, articolo 1, comma 3, convertito in L. 31 luglio 2005, n. 156, norma che impedirebbe l'applicazione del Decreto Legislativo n. 472 del 1997, articolo 13, comma 1, lettera b).
Si e' costituita l'Agenzia delle Entrate, che ha eccepito l'inammissibilita' del ricorso e nel merito la sua infondatezza, chiedendone il rigetto.
3. L'Ordinanza n. 3466 dell'11 febbraio 2021 della Suprema Corte
La Suprema Corte, con l'Ordinanza in commento, in base ad un orientamento ormai consolidato, ha affermato che in tema di contenzioso tributario l'elencazione degli "atti impugnabili", contenuta nel Decreto Legislativo n. 546 del 1992, articolo 19, pur dovendosi considerare tassativa, va interpretata in senso estensivo, sia in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (articolo 24 e 53 Cost.) e di buon andamento della p.a. (articolo 97 Cost.), che in conseguenza dell'allargamento della giurisdizione tributaria operato con la L. 28 dicembre 2001, n. 448.
Cio' comporta la facolta', non l'obbligo, di ricorrere al giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dall'ente impositore che, con l'esplicitazione delle concrete ragioni, fattuali e giuridiche, che la sorreggono, porti comunque a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, senza necessita' di attendere che la stessa, ove non sia raggiunto lo scopo dello spontaneo adempimento cui e' natura/iter preordinato, si vesta della forma autoritativa di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dal citato Decreto Legislativo n. 546 del 1992, articolo 19.
Infatti gia' al momento della ricezione della notizia sorge in capo al contribuente l'interesse, ex articolo 100 c.p.c., a chiarire, con pronuncia idonea ad acquisire effetti non piu' modificabili, la sua posizione in ordine alla stessa e quindi ad invocare una tutela giurisdizionale che assicuri il controllo della legittimita' sostanziale della pretesa impositiva e/o dei connessi accessori vantati dall'ente pubblico (Cass., 8/10/2007, n. 21045, in riferimento ad un invito al pagamento della Tosap, emesso dal Comune; 25/02/2009, n. 4513 a proposito di avviso di pagamento per contributi del Consorzio di bonifica).
Al principio di diritto cosi' affermato sono seguite pronunce, aventi ad oggetto specifici atti, non riportati tra quelli autonomamente impugnabili previsti dal citato Decreto Legislativo n. 546 del 1992, articolo 19 (cfr. Cass., 11/02/2015, n. 2616; 2/11/2017, n. 26129).
Ed a proposito della comunicazione inviata a seguito di controllo automatizzato, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 36 bis, comma 3, il giudice di legittimita' ha affermato che, nonostante l'elencazione tassativa degli atti impugnabili contenuta nel Decreto Legislativo n. 546 del 1992, articolo 19, i principi costituzionali di buon andamento della pubblica amministrazione (articolo 97 Cost.) e di tutela del contribuente (articolo 24 e 53 Cost.) impongono di riconoscere l'impugnabilita' di tutti gli atti adottati dall'ente impositore che portino comunque a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, con l'esplicitazione delle concrete ragioni che la sorreggono, senza necessita' di attendere che la stessa si vesta della forma autoritativa di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dalla norma su richiamata, e tale impugnazione va proposta davanti al giudice tributario, in quanto munito di giurisdizione a carattere generale e competente ogni qualvolta si controverta di uno specifico rapporto tributario.
Ne consegue che anche la comunicazione di irregolarita' del Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, ex articolo 36 bis, comma 3, portando a conoscenza del contribuente una pretesa impositiva compiuta, e' immediatamente impugnabile innanzi al giudice tributario (Cass., 11/05/2012, n. 7344; 19/02/2016, n. 3315).
Nel caso di specie, riguardante una comunicazione trasmessa alla societa' per l'applicazione di una sanzione per ritardato versamento di un'imposta, peraltro in forza di una disciplina che impone l'applicazione della sanzione piena, senza previsioni agevolative, costituisce una pretesa impositiva compiuta, che pertanto legittima il contribuente destinatario alla sua impugnazione, precedendo temporalmente la notifica della cartella di pagamento - atto quest'ultimo espressamente compreso tra quelli elencati nel dal citato Decreto Legislativo n. 546 del 1992, articolo 19 -.
Si osserva al riguardo quanto segue.
Nella specie, in particolare, dalla lettura dell'Ordinanza in commento, si evince come “la lettura dell’art. 19 d.lvo nr. 546/1992 si deve interpretare estensivamente identificando tra gli atti impugnabili tutti quelli che, a prescindere dal loro nome, avanzino una pretesa tributaria nei confronti del contribuente” e come “una diversa interpretazione che precluda ogni tipo di sindacato anche quando l’Ufficio formalizzi un atto di definizione contenente contestazioni manifestamente erronee si tradurrebbe in una limitazione dei diritti del contribuente sanciti dall’art 24 Cost”.
La prima e più importante questione attiene alla tassatività dell’elenco appena richiamato: in buona sostanza, se un determinato atto non è tra quelli sopra richiamati, il contribuente può comunque impugnarlo?
In linea di massima, dobbiamo ritenere che sia ormai superato il noto principio della tassatività degli atti impugnabili, soprattutto alla luce di alcune importanti sentenze della Corte di Cassazione.
Ad oggi, infatti, si ritengono impugnabili davanti al giudice tributario “tutti quegli atti con cui l'amministrazione comunica al contribuente una pretesa tributaria ormai definita” (cfr. Corte di Cassazione, Sentenza 9 dicembre 2009, n. 25699).
Gli stessi Giudici proseguono chiarendo che l’atto è impugnabile “ancorché tale comunicazione non si concluda con una formale intimazione di pagamento sorretta dalla prospettazione in termini brevi dell’attività esecutiva, bensì con un invito bonario a versare quanto dovuto”.
Inoltre, la Suprema Corte, con sentenza 5 ottobre 2012, n. 17010 ha statuito che il "catalogo" degli atti impugnabili “è suscettibile di interpretazione estensiva, sia in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (articoli 24 e 53 Cost.) e di buon andamento della p.a. (articolo 97 Cost.), che in conseguenza dell'allargamento della giurisdizione tributaria operato con la Legge n. 448 del 2001”.
È stata quindi riconosciuta la facoltà “di ricorrere al giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dall'ente impositore che, con l'esplicitazione delle concrete ragioni (fattuali e giuridiche) che la sorreggono, porti, comunque, a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria”.
4. Precedenti in dottrina ed in giurisprudenza
In merito a quanto sin qui osservato e significato sui contenuti e sui risultati dell'ordinanza in commento, è necessario rilevare come, nell’originario impianto del d.lgs. 546/1992, per la dottrina (cfr. Russo, Giustizia tributaria (linee di tendenza), in ED, app., II, Milano, 2008; Id., Manuale del diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2005 ), l’elencazione in parola risultava sostanzialmente adeguata ed esaustiva rispetto alla elencazione di tributi devoluti ai giudici tributari contenuta all’art. 2: questi si caratterizzavano, infatti, per il fatto di essere riconducibili a moduli attuativi pressoché identici, nel cui ambito gli atti elencati dall’art. 19 erano gli unici che potevano essere impiegati.
Vi era, dunque, una perfetta coincidenza tra moduli attuativi dei tributi ed atti impugnabili.
Il progressivo ampliamento delle controversie affidate alla giurisdizione tributaria ha, invece, comportato la devoluzione alle Commissioni tributarie di tributi attuati mediante moduli tra loro fortemente differenziati nei quali può non rinvenirsi alcuno degli atti indicati all’art 19, con ciò causando il rischio di un potenziale vuoto di tutela.
Ne è, quindi, derivato un vivace dibattito giurisprudenziale e dottrinale circa la natura esemplificativa oppure esaustiva di tale elenco.
In favore della ricostruzione dell’elenco in parola quale tassativo, era stata considerata la lettera i) del secondo comma dell’articolo in esame per il quale è impugnabile “ogni altro atto per il quale la legge ne preveda l’autonoma impugnabilità davanti alle commissioni tributarie” e il co. 3 per il quale “gli atti diversi da quelli indicati non sono impugnabili autonomamente” (cfr. Giorgetti, sub art. 2 del D.Lgs. n. 546 del 1992, in AA.VV., Commentario breve alle leggi del processo tributario, a cura di Consolo, Glendi, Padova, 2005).
Tali norme si potrebbero spiegare solo ritenendo tassativo l’elenco in parola, di modo che potrebbe essere solo il legislatore ad integrarlo o a consentire, in altri testi normativi, che un atto sia impugnabile avanti alle Commissioni tributarie.
Si giungeva a tale conclusione anche in forza del fatto che nel previgente d.p.r. 636/1972 non sussisteva una clausola di chiusura del tipo di quella del co. 3, l’inserimento della quale poteva, dunque, spiegarsi solo con la volontà di rendere tassativa tale elencazione.
Per fornire un’interpretazione della norma che evitasse vuoti di tutela, altra dottrina (cfr. Russo, Manuale di diritto tributario.
Il processo tributario, Milano, 2005; Id., Contenzioso tributario, in Digesto comm., III, Torino, 1988; Id., Processo tributario, in ED, XXXV, Milano, 1987) condivideva l’opinione che, indubbiamente, il legislatore avesse riservato a sé la scelta degli atti contro i quali è possibile esperire ricorso, senza, però, per questo vincolare l’interprete al nomen juris dell’atto ((cfr. Melis, Corso di diritto tributario, Torino, 2020)
Secondo questa impostazione (che è stata quella poi accolta in giurisprudenza), l’art 19, d.lgs. 546/1992 recherebbe solo una schematizzazione dei tipi astratti di atti attraverso i quali sono esercitate le funzioni di liquidazione, di accertamento, di riscossione e di irrogazione di sanzioni (ovverosia le funzioni con cui viene esercitata la potestà impositiva).
Sarebbe, quindi, permessa - ovvero doverosa - un’interpretazione estensiva dell’elenco dell’art. 19 all’esito della quale consentire al contribuente l’accesso alla giurisdizione tributaria tutte le volte in cui un ente impositore esercita un potere riconducibile ad una delle aree individuate dall’art. 19 medesimo.
Si eviterebbero vuoti di tutela perché qualunque fosse il nome dell’atto emesso dall’ente impositore esso, se espressione di una delle funzioni delineate dall’art. 19, sarebbe impugnabile.
Il novero degli atti impugnabili si adeguerebbe così ai diversi moduli attuativi implementati dal legislatore e la tassatività sarebbe così predicato non degli “atti” elencati dall’art. 19, ma delle “funzioni” che essi svolgono. Si dovrebbe, quindi, passare ad un’interpretazione “funzionale” dell’art. 19 per cui sarebbero impugnabili davanti al giudice tributario tutti gli atti espressivi di una manifestazione di volontà impositiva dell’Ufficio (nel duplice aspetto di volontà pretensiva del maggiore tributo od oppositiva al diritto alla restituzione del tributo riscosso, al riconoscimento del diritto a un’esenzione e all’applicazione del minore tributo) e idonei ad incidere negativamente nella sfera patrimoniale del contribuente (cfr. Cass., 24916/2013).
Si tratta degli atti:
1) con cui l’Ente impositore provvede alla determinazione dell’imponibile o dell’imposta;
2) con cui l’Ente impositore fissa singoli elementi della fattispecie tributaria (ad es., operazioni catastali; atti di diniego o revoca di agevolazioni; atti di rigetto di domande di condono);
3) con cui vengono irrogate le sanzioni amministrative;
4) con cui viene negato il rimborso ovvero disposta la sospensione dello stesso;
5) che fondano il diritto del creditore ad agire in via esecutiva (ma che non riguardano i modi con cui lo si esegue) (cfr. Melis, op.cit., Giovannini, Il ricorso e gli atti impugnabili, in Il processo tributario, Giur. sist. dir. trib. Tesauro, Torino, 1998; Tesauro, Gli atti impugnabili e i limiti della giurisdizione tributaria, in Giust. Trib., 2007).
La Cassazione ricorda alle Corti di merito di tenere presente che l’attribuzione al giudice tributario della giurisdizione sull’intera materia dei tributi comporta la devoluzione di tutte le controversie che incidono sul rapporto tributario “indipendentemente dall’atto impugnato” (cfr. Cass., 9669/2009; 11457/2010; 25524/2014; 3442/2015; 23765/2015) in quanto, diversamente opinando, si verificherebbe una lacuna di tutela giurisdizionale, in violazione dei principi contenuti negli artt. 24 e 113 Cost., che, invece, deve essere superata da un’interpretazione adeguatrice dell’art. 19 d.lgs. 546/1992 (cfr. Cass., 7388/2007).
Tale ragionamento viene applicato dalla Cassazione nei casi ove sono posti alla sua attenzione atti la cui impugnabilità è dubbia (ad es., il diniego di autotutela) e che essa risolve affermando la sussistenza della giurisdizione tributaria e rinviando alle Commissioni tributarie il potere di verificare se l’atto, di volta in volta portato alla loro attenzione, possa ritenersi riconducibile ad una delle categorie individuate dall’art. 19, d.lgs. 546/1992 (cfr. Donatelli, Responsabilità per atti legittimi dell'Amministrazione finanziaria e questioni di giurisdizione tributaria, in RT, 2007).
La giurisprudenza più recente (cfr. Cass., 17010/2012; 11929/2014; 26129/2017) sta ulteriormente evolvendo la propria posizione circa il novero degli atti impugnabili ed ha individuato la categoria dei c.d. atti “atipici”.
Sono intesi come tali gli atti diversi da quelli menzionati nell’elenco dell’art. 19, d.lgs. 546/1992 e non immediatamente riconducibili ad alcuna delle ipotesi ivi indicate con i quali un ente impositore vanta comunque una pretesa nei confronti di un contribuente (cfr. Cass., 5966/2015; 14675/2016; 26637/2017), a prescindere dal fatto che siano notificati a quest’ultimo, potendo anche solo essere comunicati.
Il riconoscimento della loro impugnabilità trova giustificazione tanto nell’esigenza di certezza dei rapporti tributari (che richiede un’immediata definizione delle potenziali controversie), quanto nei principi costituzionali di buon andamento della Pubblica Amministrazione ex art. 97 Cost. e di effettività del diritto di difesa del cittadino ex art. 24 Cost. (cfr. Cass., 17010/2012; 19755/2013; 25281/2015; 5723/2016; 29026/2017; 26129/2017 che ha affermato l’impugnazione in via facoltativa del preavviso di iscrizione ipotecaria al dichiarato fine di evitare che, in caso di mancata impugnazione, il contribuente incorra in decadenze processuali e gli sia così preclusa la tutela avverso il successivo provvedimento di iscrizione ipotecaria) (cfr. Melis, op. cit.)
Per la Cassazione tali atti non sono di per sé idonei a divenire definitivi, sicché essi possono essere impugnati solo in via facoltativa, previa dimostrazione, da parte del contribuente, di un suo interesse ad agire ex art. 100, c.p.c. (in buona sostanza, parte ricorrente deve dimostrare al giudice che l’atto impugnato provoca una lesione attuale ad un bene della vita di cui lo stesso è titolare).
La mancata impugnazione di uno di questi atti non comporta per il contribuente alcuna decadenza processuale o alcun consolidamento della pretesa contenuta nell’atto.
Ove, infatti, il contribuente non si sia avvalso dalla facoltà di impugnarlo, egli potrà, comunque, sindacare il contenuto dell’atto “atipico” in sede di impugnazione del primo atto “tipico” a lui successivamente notificato (cfr. Cass., 21045/2007; 5966/2015; 14675/2016; 26637/2017).
In questo senso, possono essere ricordate due fattispecie di concreto interesse:
1. il c.d. avviso bonario;
2. il c.d. avviso di presa in carico.
Ed infatti, per entrambi i casi citati, nonostante i primi tentennamenti riscontrabili nella giurisprudenza, questa è ormai decisamente orientata nel senso delle loro piena impugnabilità secondo lo schema della impugnazione facoltativa sopra delineato e, dunque, a prescindere dalla loro mancata indicazione nell’art. 19 D.Lgs. n. 546/1992 (in tal senso, cfr. Cass., 10987/2011; 7344/2012; 17010/2012; 25297/2014; 15029/2015; 15975/2015; 3315/ 2016; da ultimo, sull’impugnabilità dell’avviso di presa in carico cfr. altresì CTP Roma, n. 2575/48/18).
6. Considerazioni conclusive
L’interpretazione tassativa dell’art. 19 del D.lgs. 546/92 che ha da sempre dominato, in particolare tra gli studiosi del diritto, ha iniziato a tramontare o quanto meno ad essere offuscata da un orientamento della Corte di Cassazione che con sentenza n. 17202 del 23.07.2009 ha stabilito che è possibile ricorrere al giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dall’ente impositore che contengano una “esplicita pretesa tributaria".
Si rammenta anche la sentenza della Cassazione civile sez. trib. 11 novembre 2015 n. 23061 con la quale si e' statuito che “In tema d'imposta di registro, l'invito al pagamento di cui all'art. 212 del D.P.R. n. 115 del 2002 è l'unico atto liquidatorio, previsto dalla legge, dell'imposta prenotata a debito, con cui viene comunicata al contribuente una pretesa tributaria ormai definita, sicché, a prescindere dalla denominazione, va qualificato come avviso di accertamento o di liquidazione, la cui impugnazione non è facoltativa, ma necessaria ex art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, pena la cristallizzazione dell'obbligazione, che non può più essere contestata nel successivo giudizio avente ad oggetto la cartella di pagamento.".
La Suprema Corte si pone in linea con la necessità di migliorare i rapporti tra fisco e contribuente e di aumentare le garanzie a quest'ultimo riconosciute. Il principio di tassatività viene sacrificato in vista di un riconoscimento più ampio di garanzie in favore del contribuente.
Ciò che viene in rilievo, dunque, è l’interesse del contribuente ad opporsi ad un’attività dell’Amministrazione Finanziaria.
Tale interesse non matura solo a seguito della notifica di uno degli atti elencati all’art. 19 del D.lgs. 546/92, ben potendo configurarsi un interesse anche a seguito della notifica di altri atti dell’Ufficio non ricompresi nell’elenco.
La Suprema Corte, con sentenza sez. VI 28 luglio 2015 n. 15957 ha altresi' statuito che “In tema di contenzioso tributario, l'elencazione degli atti impugnabili contenuta nell'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 ha natura tassativa, ma, in ragione dei principi costituzionali di tutela del contribuente e di buon andamento della P.A., ogni atto adottato dall'ente impositore che porti a conoscenza del contribuente una specifica pretesa tributaria, con esplicitazione delle concrete ragioni fattuali e giuridiche, è impugnabile davanti al giudice tributario, senza necessità che si manifesti in forma autoritativa, sicché è immediatamente impugnabile anche l'avviso bonario ex art. 36 ter, comma 4, del D.P.R. n. 600 del 1973.".
Ogniqualvolta un atto dell’Amministrazione Finanziaria invade la sfera giuridico patrimoniale del contribuente, nasce il diritto di quest’ultimo ad ottenere una tutela mediante la proposizione di un’impugnazione.
La Suprema Corte con sentenza sez. trib. 08 luglio 2015 n. 14243, ha statuito che “In tema di contenzioso tributario, ai sensi dell'art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, è impugnabile l'annullamento parziale, adottato nell'esercizio del potere di autotutela, di un avviso impositivo già definitivo, trattandosi di un atto contenente la manifestazione di una compiuta e definitiva pretesa tributaria, rispetto a cui, pur se riduttivo dell'originaria pretesa, non può privarsi il contribuente della possibilità di difesa.".
Del resto, tale assunto - come in precedenza riferito - trova fondamento nell’art. 110 c.p.c. laddove si legittima l’azione in giudizio quando alla base sussista un “interesse ad agire".
Giova a questo punto ricordare il TAR Sicilia, il quale, con sentenza n. 2520 della sez. III del 03 novembre 2015, ha puntualmente statuito che “In seno al processo amministrativo l'interesse a ricorrere è caratterizzato dalla presenza dei requisiti che qualificano l'interesse ad agire di cui all'art. 100 c.p.c., vale a dire dalla prospettazione di una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente e dall'effettiva utilità che potrebbe derivare a quest'ultimo dall'annullamento dell'atto impugnato, sicché sarebbe del tutto inutile eliminare un provvedimento o modificarlo nel senso richiesto dal ricorrente se questi non può trarre alcun concreto vantaggio in relazione alla sua posizione legittimante.
L'interesse ad agire deve sussistere al momento del ricorso e deve perdurare per tutta la durata del processo, dal momento della proposizione dell'azione fino a quello dell'assunzione della decisione”.
Tale interesse deve essere attuale e concreto e consiste nell’esigenza di ottenere un risultato utile, giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice (cfr. Allorio, Diritto processuale tributario, Milano, 1942; Basilavecchia, Funzione impositiva e forme di tutela, Torino, 2009; Uricchio, L'Amministrazione nella giustizia tributaria, Padova, 2000).
Infatti, una diversa interpretazione dell’art. 19 del D.lgs. 546/92 finirebbe per pregiudicare un diritto costituzionalmente garantito all’art. 24 ovvero il diritto di difesa da parte del contribuente.
Aprile 2021
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